Thursday, November 1, 2018

Novembre 02 2018 Venerdì. n° 2714 + 30 NS  (nuova serie). Pensiamo positivo. 

Recordatio   prosegue semestre "horribilis"
......  E’ il 13 Agosto 1943, nuova incursione su Roma. Solito spettacolo di centinaia di aerei che sorvolano senza noie la città. Dal mio punto di osservazione, il terrazzo uffici INA in via Umbria, osservo lo svolgersi del bombardamento che sembra coinvolga le zone dell’Appio-Latino-Tuscolano. Scoppi, nubi di fumo nero e polvere coprono buona parte dell’orizzonte. Arrivano frattanto notizie più precise, bombardano non vicino ove viviamo noi, ma proprio il luogo specifico. Corro verso casa, i tram sono fermi. Troverò ancora il nostro palazzo o sarà distrutto? Per fortuna mio padre è al lavoro, mia madre in Umbria e mio fratello militare.Già mi vedo ospite in qualche istituto scolastico requisito per gli sfollati  
 - Il palazzo è salvo, di fronte, a meno di cinquanta metri, è rasa al suolo la chiesa della Madonna dell’Orto, che ha assorbito su di se l’esplosione di due bombe. E’ uccisa anche una persona sul sagrato. Il rifugio antiaereo della chiesa, affollatissimo e utilizzato dagli abitanti del nostro e altri palazzi, sito in una profonda caverna-cantina predisposta da secoli al servizio di qualche fattoria, non è colpito e tutti si salvano. Conosco bene questo lungo cunicolo che dovrebbe giungere sotto la ferrovia e il vicino quartiere del Mandrione; per la sua profondità è certamente sicuro, mancano però una vera uscita di sicurezza e un buon sistema di aerazione. Sarebbe stata una tragedia se si fosse ostruito l’ingresso. In effetti, non è un rifugio pubblico, bensì privato, messo a disposizione dalle religiose con molta riluttanza, vista la sua insicurezza. C’è da dire che anche quelli ufficiali hanno prevenzioni penose; da noi sono seminterrati rinforzati con delle assi, travi e palanche.
- Raccolgo nel cortile spolette di bombe d’aereo, segno che gli sono passate sopra. La stazione Tuscolana non c’è più. In piazza Ragusa due fabbricati sono colpiti. Lo è pure un treno di civili rimpatriati dall’Etiopia, diretto a un centro smistamento, lo stesso di mia zia giunta da alcuni giorni. Morti tanti, quanti?  
- Gli anglo-americani avanzano rapidamente nell’Italia del sud. Sentiamo aria di disfatta eppure stentiamo a credere che ciò possa avvenire a breve. Molti sperano nelle armi segrete germaniche. Almeno per ora non si pensa più alla fine della guerra. L’intendimento di Badoglio “tutto continua come prima” sembra sia applicato, sempre non celi qualcosa di sorpresa..
  - E’ l’otto settembre. La radio annuncia che è stato firmato un armistizio con gli alleati. Tutti impazziscono senza capire che, con i tedeschi in casa, è terminato un bel nulla. Poche ore prima è stata semidistrutta Frascati; gli alleati sono sbarcati a Salerno, e c’è chi dice che truppe aviotrasportate USA siano già scese, o scenderanno, presso Roma. E che avverrà con la comunicazione che reagiremo ad attacchi da qualsiasi parte provengano? E’ certo un riferimento agli ex alleati tedeschi che non potranno abbandonare con immediatezza il nostro paese, salvo il trascinarsi gli alleati fino alla frontiera del Brennero.  

Probabiliter  Il Conte Tacchia
Con l'eccellenza della nobiltà romana il Conte sarà sempre stato, probabilmente, un Contuccolo da poco.
La figura del Conte Bennicelli, soprannominato Conte Tacchia, tipica del fine ottocento, era ben nota ai romani d’una volta, meno a quelli d’oggi che di romanità e tradizioni sono carenti in ogni senso. Anni fa fecero addirittura un film sul personaggio, interpretato da Montesano, che qualcuno potrebbe ricordare. Ebbene, l’ufficio della mia società di lavoro, ove dirigevo il Centro Promozionale, aveva sede nel primo piano del palazzotto del Conte, in Piazza dell’Orologio a Roma, il principale del sito, con a lato il complesso della Chiesa Nuova, l’oratorio San Filippo Neri e, a fronte, il palazzo ove nacque il Papa Pio dodicesimo, Eugenio Pacelli. La piazza era la centrale del quartiere, a lato di Corso Vittorio, con d’attorno tante botteghe artigianali, ristorantini e semiosterie ove io andavo a desinare, o prendere una pizza, assieme al mio collega principe YY con la differenza che a lui, in quanto tale, avesse anche ordinato due fette di prosciutto o mezza pizza, si presentava tutto lo staff a riverirlo, cosa non per me che disponevo solo di avi nobilastri di poca importanza. Ogni volta che passo in Piazza dell’Orologio alzo lo sguardo e rivedo i due finestroni dello studio del mio direttore, viveur navigato e noto in campo spettacolo, nonché le due finestre del mio ufficio con vista sia sulla Piazza, sia sul Corso Vittorio che si approssimava al Ponte omonimo e a Piazza San Pietro. Insomma ambiente più romano di così non si poteva. C’era poi che nel piano superiore a noi vivesse l’ultimo rampollo dei Conti, scapolo, di una certa età ma non anziano, aspetto da nobile pur alquanto dimesso, apparentemente amico di tutti solo se trattato con riverenza, il Conte infatti era sempre lui e gli altri niente di niente, tali il popolino minuto d’un secolo prima. Trattava invece da pari, come se i titoli fossero equivalenti, col principe YY e non disprezzava me in quanto il mio eccelso amico si era immaginato una mia presunta linea di nobiltà, avallata dai suoi tomi araldici e riservati. Inutile dire che il principe, anche lui single, con casa museale in Via Giulia, il corso dei Papi, era ricco in arte statica e carente in contanti, così si era adattato, con entusiasmo scarso, a fare il dirigente da noi, quasi ci facesse una cortesia, con retribuzione quasi doppia alla mia solo perché nel suo stemma si celavano un Papa e più Cardinali. Il mio invece (l’avevo sempre ignorato) era banalmente uno scudo con due pesci, forse aringhe, sfondo celeste. Era uso che ogni mattino il Conte scendesse nei nostri uffici, gli offrissimo il caffè, chiacchierasse un po’ col direttore se già arrivato. Poi, con frequenza notevole, chiedeva alla mia segretaria se poteva fargli una fotocopia di qualcosa del suo. Non c’è da sorridere ma era una cosa difficile. La fotocopiatrice d’allora era un marchingegno mezzo fotografico, mezzo chimico, con carta trattata, maneggiabile solo da specialisti. Così, servendo poi anche a noi, facevamo in modo che essa fosse già pronta. A volte lo invitammo a desinare con noi senza che egli avesse mai offerto un quarto di vino o un caffè. Pensavamo che non avesse rapporto col denaro, forse non ne disponeva, pur se gli affitti dei locali di due nostre società non scherzavano. Da lui seppi i particolari di vita del papà e nonno, questi il Conte Tacchia doc, oggi nelle storie capitoline. Assicuro però che ascoltarli dalla voce del Conte era altra cosa. La loro famiglia veniva dalle Marche e, pur già presenti in città, si trasferirono definitivamente a Roma con l’unità d’Italia del 1870. La loro base economica era la costruzione e il commercio di mobilio comune e di pregio, con mezze Marche artigiane che lavoravano per loro. Acquistarono così il palazzotto cardinalizio di Piazza dell’Orologio, con annessi locali di stallaggio e magazzinaggio. Sempre dalle Marche giungevano in continuazione grossi carri a cavalli da tiro con mobilia d’ogni sorta, per tutti i ceti.  I carichi, per garantirne tenuta e stabilità nel non breve viaggio, difficoltoso anche per lo stato pessimo delle strade, erano stabilizzati in più punti del pianale con supporti e cunei di legno, chiamati volgarmente tacche o tacchie, rimossi al momento dello scarico, nonché ammucchiati in più punti della piazza, in attesa o di recupero, o di vendita come legna da ardere. L’ingombro divenne tale che il popolino si chiedeva: “ma di chi sono queste tacchie? Del Conte?” Ripetuta mille volte questa tiritera di Conte e tacchie , tacchie e Conte ne venne la figura del Conte Tacchia, personaggio estroso, spaccone, di natura popolare, anche per via del mobilio trattato (i titolati Top si poggiavano su finanza, agricoltura, vini, greggi e non arredamento). Era uso che egli rispondesse grevemente in romano – marchigiano alle proteste degli abitanti del luogo e erano ben note le sue colorite imprecazioni. Inoltre nell’ultimo periodo del 1800, egli acquistò fra i primi, per sfoggio e comodità, una enorme auto, metà meccanica, metà carrozza  da cavalli, con la quale usciva emettendo cospicui  rumore e fumo, e in risposta ai popolani che lo salutavano come Conte Tacchia, sia come buona giornata sia per l’ingombro delle tacche, egli rispondeva, ponendosi sulla bocca pollice e l’indice aperti, con interminabili e sonore pernacchie, note per la loro particolarità e potenza. Poi pian piano il commercio dei mobili si ridimensionò per il sopraggiungere di altri produttori e artigiani, venne la crisi della Banca Romana che lo colpì duro, giunsero le guerre di Libia e mondiale del 1912 - 15 e l’astro dei Conti declinò, quasi a scomparire. Ciò narrava l’ultimo rampollo che dovrebbe aver chiuso la casata e avere oggi ben più di un secolo. Egli ci accoglieva nel suo alloggio, ci mostrava documenti, quadri, foto d’un tempo, ove dei compassati Conti Tacchia osservavano con sufficienza chi violava la loro residenza residua. Ricordi di tempi per me affatto remoti.

Consideratio
Cenni sul dedito pubblico n° 10 e per ora finis
Finis delle note non per esaurimento del problema, magari!  Però dopo quanto indicato con riepiloghi da prima elementare una pausa doveva pur esserci. Nell'ultima ho detto delle voragini createsi nella conduzione dello Stato, con le sue due Camere da livello siderale e con più di 3milioni-200mila di dipendenti, di norma non brillanti quanto a  volontà, capacità, pur con sacche di eccezionalità che, per fortuna, riescono a non far annegare il paese. Che dire oggi? A mio giudizio quanto esposto finora per l'amministrazione centrale deve integrarsi con la pazzia economica di avere venti regioni con venti parlamenti, e, se non sufficiente, ecco cento e più province coi loro Consigli provinciali, aggiuntivi poi ai Consigli Comunali. Ne viene che Il motivo per cui chiudo è: "che altro posso aggiungere alle nostre incongruenze irrefrenabili?" Questo debito malefico che ci corrode, oltre incrementarsi con la nostra opera, si forma e alimenta in prorio, tale il Moloch che potrebbe crollare, speriamo non seppellirci. Un debito di 1miliardo-250milioni di Euro circa, se espresso in vecchie Lire 2.500.000.000.000, rinuncio a leggerlo, chi lo potrebbe ridimensionare? altro che Cinque Stelle e Lega, pur con la loro buona volontà, non basterebbe nemmeno uno Stalin elevato al quadrato. Eppure, col debito odierno al 130% circa del PIL (Prodotto interno Lordo) non siamo al 180% e più che si trovò il Duce al termine della prima guerra mondiale, eppure riuscì a normalizzarlo con la sua irredimibilità e fissando la Lira a quota 90 con la Sterlina, malgrado la crisi USA del 1929. Peggio poi nel 1945 con un'Italia semidistrutta. Eppure la mia generazione, con entusiasmo, con doveri tantissimi e diritti pochissimi, risollevò l'Italia e nel 1958 la Lira fu dichiarata la moneta migliore europea, meglio della Sterlina, pur avendo l'inghilterra vinta la guerra e noi persa. Che fare oggi? noi novantenni e centenari degli anni trenta qualche idea potremmo averla, pur sapendola irrealizzabile, ma non esiste miracolo che possa toglierci 60-70 anni o risorgere dai sacelli, onde evitare che la Corazzata Italia affondi una seconda volta, dopo la prima nel 43 con tutto l'equipaggio.

-------------------------------------