Wednesday, October 10, 2018

Ottobre 10 2018 Mercoledì. n° 2714 + 14 NS  (nuova serie). Pensiamo positivo. 

Recordatio  
                           .. segue Diari di vita - 
Prime scuole, puntuali e amiche
Arriva l’ottobre del 1933 e inizio la prima elementare nella scuola Enrico Toti in via Casilina Vecchia, succursale dell’Armando Diaz. La prima maestra è una matura signorina, almeno per me (Valeri), che unisce la bravura dell’insegnamento alla pazienza necessaria per seguire trenta bambini maschi (le classi miste ancora non ci sono). Ricordo e conservo la prima letterina natalizia ai genitori, che copio in parte dalla lavagna poiché non abbiamo ancora imparato tutte le lettere dell’alfabeto, avendo dedicato un bel po’ di tempo a bastoncelli e palloncini (oggi in prima si studiano lingue e informatica). Ho conservato per decenni il sillabario, poi smarrito in un trasloco, mentre la classica foto annuale di gruppo è ancora fra le mie carte. Molti dei compagni mi seguiranno nelle classi successive, così saremo assieme, con l’opportunità di frequentarci e conoscerci meglio. Al termine dell’anno ricevo una medaglia al profitto che il delegato del Governatorato, nel corso di una cerimonia, mi appunta sul petto. La medaglia l’ho conservata pur se il tempo ha quasi distrutto il nastro sovrastante; esse dall’anno successivo saranno abolite e sostituite con diplomi, i miei sono andati purtroppo dispersi. In seconda classe ho un maestro paterno, accomodante, panciuto, religioso (Pertica, va d’accordo con mia madre). Mi abbraccia con affetto quando nel Maggio 1935 ricevo comunione e cresima. Mi promuove capoclasse e suggerisce a mia madre di farmi studiare da prete, generando un aumento della stima di lei nei suoi confronti. Pure per quest’anno ho la foto di gruppo che, non so il motivo, in seguito non sarà ripetuta. Un corollario del periodo è costituito dalle cure mediche sbrigative alle quali sono sottoposto, come l’estrazione al “vivo” di qualche dente all’Ufficio d’Igiene, le feroci spennellature per il mal di gola o, peggio, l’asportazione di tonsille e adenoidi senza anestesia (dolore da impazzire!), con un robusto infermiere che mi blocca la testa e aggeggi che mantengono la bocca spalancata. Torno a casa in tram dopo un’ora dall’intervento con un pezzo di ghiaccio in bocca. Le classi terza, quarta, quinta, le svolgo sempre nella stessa scuola e con un nuovo maestro (Di Pietro), di una certa età e corporatura robusta. E’ paziente quanto basta, si fa rispettare, è di polso e deciso. Che sia o no religioso come il precedente non lo so, da lui comincio a capire che Stato e Chiesa devono convivere senza intralciarsi. Sono sempre capoclasse ma a mezzadria giacché ne è nominato un secondo con compiti diversi; io più per la fase dello studio, l’altro per imporsi alle intemperanze della classe, sempre maschile, con bambini che stanno diventando grandicelli. Questo amico, bravo e intelligente, lo troverò anni dopo occupato come manovale nell'edilizia, con gli studi interrotti in quanto la famiglia non se li era potuti permettere, un peccato e ingiustizia!  In questo periodo muore, forse di tubercolosi, malattia allora diffusa, un compagno di classe, è un altro incontro con la morte dopo mia sorella e pur sono nell’età in cui questo evento si considera come lontano, riguardante gli altri e i vecchi di sessanta - settanta anni (oggi a questa età sono ragazzi). Il maestro è stato ufficiale nella guerra mondiale e, a volte, nelle ricorrenze patriottiche, si presenta con una divisa che a me sembra di un generale e non di un tenente di complemento.  Ha fatto il fronte e racconta eventi che fanno pensare la guerra sia solo gloria e ardimento.  A volte, con un piccolo contributo passiamo qualche ora a visionare lastre di episodi bellici in fotoscopi giunti dal Ministero della guerra, con visore bioculare. Anch’egli suggerisce a mia madre, che lo ammira e rispetta, di farmi studiare non da prete, bensì da maestro, cosa che, anche se non attuata, perché valutata da indirizzo femminile, sarà presa in considerazione. Mia madre viene spesso a prendermi ed io la riconosco fra le altre quando all’uscita ordino alla classe il “saluto al Duce” e il “rompete le righe”. In classe recitiamo spesso una preghierina in onore del pane e, in alcune ricorrenze, il giuramento al Duce; il maestro ci dice però che sopra di tutto e tutti c’è il Re. Devo precisare che, contrariamente a ciò che lui afferma, per noi conta solo il Duce; ma chi sarà mai quel nano del Re? E a che serve? Questo però lo tengo per me. Quanto al maestro c’è da dire che in divisa dell’esercito l’abbiamo visto più volte, ma in camicia nera mai. Supero gli esami di quinta a pieni voti, ricevo un ultimo diploma (mi avessero mai dato un premio in soldi) e mi preparo per le superiori. Sono cresciuto. Inizio a guardare con sufficienza chi frequenta le elementari. Mi prefiggo di tornare a trovare il maestro, cosa che lui avrebbe gradito, ma, con la leggerezza dell’adolescenza, non lo farò e non lo rivedrò più. Saprò che seguiterà a portarmi d’esempio. Per questa mancanza di sensibilità provo ancora rincrescimento. E’ il 1938 e mio padre decide, col mio tiepido consenso, che io segua le scuole commerciali come mio fratello. Il suo ideale è vedermi un giorno impiegato, meglio se statale, parastatale o comunale, e non operaio come lui. L’idea di scegliere le magistrali è discussa ma accantonata (dicono non siano adatte per i maschi, mah!). Si scarta anche la scuola media giacché essa è frequentata da chi prevede di passare poi ai licei, istituti superiori e università, con studi lunghi e costosi, fuori dalle possibilità di famiglia che, pur avendo deciso di far studiare i figli (lo facevano poche), puntava a risultati concreti in tempi non troppo lunghi. Fosse dipeso da me avrei scelto l’indirizzo tecnico-meccanico e, in un certo senso, invidio gli amici che frequenteranno gli istituti Duca d’Aosta e Carlo Grella (oggi Galileo Galilei). Comunque non mi lamento, in fin dei conti vanno bene anche le commerciali; non è che la mia maturità sia già in grado di fare scelte troppo autonome, penso che mio padre avrà i suoi motivi. Inizio così il triennio di studi presso l’Istituto Carlo Moneta in via Tuscolana, di cui, considerando che passerò tutto il periodo con gli stessi compagni e professori, salvo modeste varianti, ne esporrò ricordi, atti, fatti nel loro complesso, senza suddividerli per anni singoli. La conferma che sono scuole non più da bambini ma per grandi la danno l’abbandono del grembiule e del fiocco, i libri necessari e, mi viene da sorridere, i tanti “castagnacciai” davanti la scuola dai quali comperiamo con pochi soldi, quando li abbiamo, fette di pizza di farina di castagne, o di granturco con l’uvetta. E’ una nuova vita rispetto le elementari. L’impegno è elevato ma di soddisfazione. Studiamo tutti, o quasi, con serietà; siamo una trentina di maschi, le femmine sono al piano superiore. Mi trovo a mio agio sia nelle materie di tipo generale, come l’italiano, matematica, francese, scienze, sia nelle tecniche, computisteria, ragioneria, stenografia, prime nozioni del diritto ed economia. Nel complesso mi sembra che sia tutto di buon interesse. I testi di studio, caratteristica di allora, sono limitati di numero e non prolissi, inoltre trasferibili nella maggior parte da un anno all’altro, così molti di noi li acquistano usati dai promossi alle classi successive o nelle librerie a ciò specializzate, specie nella zona del Pantheon. Alcuni li conservo e consulto ancora mentre oggi, per studi su cui esprimo riserve, si acquista una miriade di volumi, spesso non utilizzati e variati di continuo. Dati i tempi sono in auge tre materie particolari, Cultura Militare, Cultura Fascista, Ginnastica. Quest’ultima già esisteva, ma mai valorizzata come ora. Mia madre all’inizio continua ad accompagnarmi. Approfitta di ciò per fare una visita nella vicina basilica della Madonna Ausiliatrice di don Bosco, e ciò non gli dispiace. 

Probabiliter 
Non è un mistero il mio feeling col Duce della Gioventù. Ebbene, politica a parte, ho pensato di dimettermi dalla carica di componente del nucleo impegnato nei suoi ideali e mete. Sorrideteci pure, è un'atto per metà serio e metà celia. Vedrò in seguito come si metterà. 
Mi rivolgo al Duce per un improbabile congedo
Fatti di ieri e oggi: Nella mia gioventù la donna, ragazza, madre di famiglia o anziana, era considerata da proteggere, assistere. Guai se un balilla in tram non cedeva il posto a una signora, tanto più se in attesa di un bambino, specie poi se anziana. Quanto alle ragazze non c’era problema, era immediatamente offerto nella speranza di attaccare bottone.
Naturalmente la possibilità del sedersi prevedeva anche gli uomini “vecchi”, cioè più o meno sessantenni, i quali ogg si trovano loro a cedere il sedile ai giovani in quanto più in gamba di loro. Altrettanto per aiuti riguardanti pacchi e borse spesa, o modeste collaborazioni e servizi qualora richiesto. Verso la donna vigeva il concetto medioevale della dama che i cavalieri proteggevano da farabutti, draghi e bestie mostruose, considerandola un essere delicato, superiore come grazia e sentimenti, debole però quanto a forza fisica e intraprendenza, nonché timoroso del mondo attorno. Questo è un lato della medaglia, l’altra vedeva la donna considerata si con tante qualità, ma anche con con un bel grado di inferiorità rispetto l’uomo in tutti i campi che contassero. Non valsero le leggi del Duce miranti ad una loro valutazione. Malgrado le buone intenzioni i tempi erano quelli e essa finiva per essere considerata un traguardo preminente di natura sessuale e, solo di riflesso, di numerosa procreazione. Veniamo a dei fatti di allora e oggi, ne espongo quattro in rappresentanza di altri, di cui il primo in anni lontani, gli altri di data recente. Tutti ovviamente veri. Eccomi così al 1943. Ho sedici anni, sono avanguardista, Mussolini, l'Artù del momento ha radicato in me i principi dei cavalieri “neri” della sua tavola rotonda, dediti alla ricerca dei miti ariani e alla difesa degli oppressi.ammino in strada e vedo due giovani, un “lui” e una “lei”, darsele di santa ragione. In verità è “lui” a darle e “lei”a cercare di difendersi. Ragioni o torti c’è che la ragazza incassa una serie di ceffoni e invoca un aiuto, c'è chi guarda e preferisce defilarsi. Non sia detto che un Cavaliere di Artù-Duce non intervenga in favore della pulzella . Così gli urlo di smettere, che chiamerò le guardie, mi intrometto e fermo le braccia di “lui” beccandomi qualche mezza sberla o pugno, magari involontari in quanto “lei” si era rifugiata dietro le spalle. Poi la burrasca cala d’intensità, “lei” piange, “lui” a dirmi che è una disgraziata, il perché non so, ma le botte sono finite. “Lei” singhiozza, “lui” fa’ il gradasso ma è in difficoltà, finché io chiedo a una “lei” riconoscente se posso accompagnarla dove non so, a casa, in qualche parte, comunque via da li. “Lui” allora smette di smargiassare e gli dice che, botte a parte, gli vuole bene (a quel tempo il bene si esprimeva pure così), gli chiede scusa, gli asciuga le lacrime e cerca di darle un bacio, con “lei” che si tira indietro. Infine, dopo cinque minuti, e ne vanno salutandomi con un “ciao, grazie scusa”. Io la sera, come preghiera-rapporto di fine giornata, quale fossi Lancillotto, mi rivolgo al mio Artù e lo aggiorno sull'impresa dell’aver difeso una donzella da un drago degli inferi , e ecco il sonno con la coscienza in pace. Passano vorticosi decenni, siamo in data vicina, cammino vicino casa ed urla scomposte di donna attirano la mia attenzione. Al di la della strada, rasente il marciapiedi, è ferma un’auto con la portiera spalancata da cui è uscito un giovane robusto che si è avventato contro una giovasne, riempiendola di schiaffi e pugni, ricevendo in cambio calci, unghiate, spinte. Il Lancillotto in me si risveglia e, immemore dell’età, ritengo mio dovere intervenire con buone maniere per salvare la fanciulla (ma che fa?.. la smetta!.. non si vergogna?.. è una ragazza!.. bel coraggio con chi è più debole!.. mi meraviglio di lei!…) e cerco di dividerli, ricevendo di nuovo spintonature che per poco non mi stendono in terra, oltre occhiate feroci. Nel contempo mi arrivano: “ma di che c..zo ti impicci!.. ma chi c..zo sei!.. fatti i c..zi tuoi!.. decrepito del c..zo!.. se non sparisci sai il c..zo dove te lo sbattiamo?..” e così via. In una anciata di secondi l’esposizione verbale dell’organo maschile mi è stata gettata in faccia più e più volte. Ad alleggerire il tutto c’è stato qualche fanculo. Mi si potrebbe dire che i tempi sono cambiati e io me la sia cercata, ma non ho detto tutto. I tempi diversi si, ma non pensavo al punto che la sfuriata blasfema non sia stata tanto di “lui”, bensì soprattutto di “lei”, ripeto di “lei”, insisto di “lei”, che mi ha aggredito con parole e mani come una tigre, capito? Questo non me lo sarei aspettato. Infine i due, invitandomi a togliermi dalle balle, se ne sono andati con l'auto magari dandosi un bacio (non l’ho visto, non mi meraviglierei). Ora gli ultimi due, in quanto, per un caso della sorte, sono avvenuti pressoché immediatamente, qualche giorno prima di questo scrivere. Sono al semaforo di un crocevia, ecco il verde, nemmeno accenno l’avvio dell’auto che una rombante moto con due occupanti mi supera in velocità talmente vicina alla fiancata da meravigliarmi della mancanza di una collisione. C’è però che un ginocchio sfiori la portiera, il guidatore sbandi finendo in terra davanti la Micra, per fortuna pressoché ferma. L’eroe si rialza e si precipita verso me coi bicipiti già pronti a far sfoggio. Urla come un pazzo che sia risarcito di che non so. La mia età è quattro volte la sua e la mia vitalità, purtroppo dieci volte in meno, visto anche il suo fisico palestrato. Allora lo fisso negli occhi e gli dico:…” e hai la sfacciataggine di protestare? Sei un criminale della strada, vai piuttosto ad rialzare la tua compagna ancora in terra”. Nel frattempo ecco la mamma da un’auto vicina che, peggio del figlio, urla “dovete essere più prudenti (?) con questi nostri figli!”. Inutile dirgli che io mi ritenga il danneggiato virtuale (non ho subito danni) e non il massacratore del pargolo. Giunge il padre (abita a due passi) ed è l’unico a mantenere l’equilibrio e chiudiamo l'evento. C’è che, a conclusione, il ragazzo con gli occhi iniettati di sangue, non in senso metaforico, ha mostrato la mancanza di coscienza e responsabilità nonché, pur in palese torto, avrebbe aggredito un signore che poteva essere suo nonno o bisnonno. Non c’è più equilibrio nei giovani al rispetto altrui e, per questo caso in particolare, anche di buona famiglia, con la mamma pronta a coccolare il suo bambolone voluminoso, quanto insulso e prepotente. L’altro è di ieri da quando scrivo. Transito con l’auto in zona EUR e sono soggetto ad un tentativo di aggressione-truffa con la scusa ricorrente, che conosco bene, dello specchietto di un’auto fantasma danneggiato dalla mia auto, cosa assolutamente falsa. Io lo comprendo e dico ai due ragazzi inferociti ad hoc che non pagherò nulla, chiamerò la polizia e sporgerò denuncia assicurativa, correndo un bel rischio in quanto la via e la zona risultano deserti e loro sono due cristoni poco più che ventenni coi quali non posso competere, l'avrei fatto qualche decennio fa. Però la cosa che mi colpisce è che i due, a prima impressione, sono anch'essi di ottimo livello e famiglia, con auto nuova di pregio, ben vestiti, di eloquio corretto e, come dovrò precisare nella denuncia contro ignoti (perché essi si sono poi allontanati velocemente senza ricevere nulla) di carnagione chiara, lineamenti fini e capelli biondastri, ciò per confutare l’ipotesi del trattarsi di nordafricani, nomadi o zingari. Resta che le loro urla per estorcermi almeno cento euro le avranno sentite a qualche centinaio di metri, accompagnate, non bastasse, da spintonaggio ripetuto e mani avanti. La mia desolazione in questi casi è che ho visto una gioventù allo sbando, anche di un certo livello, senza morale, senza direttive, senza un domani, senza speranza, che sopravvive grazie a genitori incoscienti, oltre alle truffe e prepotenze più disparate, specie su donne e anziani. Gioventù non di stato sociale infimo, non di indirizzo delinquenziale come ciò s’intende. Il contrario di quella del mio tempo che rispettava genitori e anziani, lavorava, e includeva lestofanti nelle misure minime rispetto i tempi. E questi ragazzi di oggi li, vedo ripetuti a decine, centinaia, migliaia, fra quelli che che bighellonano immaturi, che s’ammazzano nelle notti delle discoteche, si drogano, si suicidano, devono inventarsi di tutto per una vita insulsa e insignificante. No, questa società non mi piace, mi lascia la bocca amara e fa sorgere in me una ridda di pensieri sulle possibili soluzioni da poter dare a questi problemi giovanili di indirizzo, formazione, avviamento esistenziale, ma essi non troverebbero compatibilità con leggi, regolamenti, col comportamento e morale permissiva d'oggi. E ieri sera, andando a riposare, con gli occhi socchiusi, ho pensato sia al tentativo di aggressione-truffa appena subito, sia agli altri solo esemplificati, ed ho chiesto di essere ammesso nella sala della tavola rotonda presenti tanti Cavalieri Neri sfiduciati, nonché un Re Artù-Duce cupo e imbronciato. Gli ho detto: “Mio Sire Il tuo Lancillotto, senza macchia e paura, si ritira dall'opera attiva, non si dimette però, chiede una stasi provvisoria, considerandosi sempre al Tuo servizio, ma questa spada invitta, morale e materiale, per ora la riconsegna, come ti affida le vesti di avanguardista della Tua Gioventù, che l’hanno accompagnato in tanta parte della vita”…”Sta a te decidere se richiamarmi, in tal caso non mi negherò … per ora non posso affrontare e combattere un mondo che non capisco, mi rifiuta, lo rifiuto, al quale non servo. Non è più quello impegnativo e periglioso dei miei venti anni, nel quale ti servii e servimmo offrendoti tutto di noi stessi. Il tuo Lancillotto, o mio Sire-Duce, resta però il tuo Cavaliere Nero, pronto per essere al tuo fianco se necessario”… Terminato ciò, posti gli abiti e la spada virtuale di fronte a Artù-Duce, mi sono visto uscire dall'aula retrocedendo di spalle col capo chino rivolto verso Lui, e sparire nella nebbia del nulla. E’ stato un sogno? uno sprazzo di realtà, di verità? Non lo so, sono presenti in me gli ultimi impatti, facendomi balenare in mente i tanti precedenti che ho inteso riepilogare con quelli presentati quale esemplificazione e monito per tutti.


Consideratio
Divagazioni mediolanensi
Oggi è stata giornata dura ma di soddisfazione, l’ho dedicata alla Milano di lavoro e vita, città che amo al pari della Roma insostituibile (un briciolo di preferenza consentitemelo). Va bene, non sono più un operativo pur se resto attivo, me lo dimenticassi ci sono miriadi di rilevatori a rammentarlo, a parte la carta d’identità. C’è però che quando mi trovi in Lombardia, cosa frequente visto che gli specialisti ospedalieri di Gallarate, ove ho la figlia primario medico, hanno preso a benvolere il mio cuore, non manco mai di rivivere un po’ dell’esistenza passata nelle aree lombarde e il centro settentrione in genere. Così dalla Varese di residenza eccomi a dedicare un giorno alla Mediolanum che mi accolse. I punti per me non sono molti ma rinverdiscono la mente e l’illusione di un tempo immobile. E allora ecco il Duomo vetusto di storia che mi riaccetta amico, il sacello del Cardinale Schuster, le rimembranze di Carlo Borromeo, Ambrogio, Agostino, degli artisti che lo eressero nei secoli, dalla prima basilica oggi ipogea, sino a oggi. Esco appagato di spirito e anima e mi concedo un passeggio nell’immensa piazza per poi sostare in luogo sempre specifico dell’aria ambrosiana, cioè l’insieme dei bar–restaurant nel terrazzato Rinascente, dirimpetto la Madonnina dorata, col rammarico che lo stupendo restaurante della Motta sovrastante i portici, il quale ci accolse discreto e gratificante, sia stato sostituito da più spicciativi e freddi Self-Service. Poi una pausa e un passaggio nella Galleria che mi riceveva nel Biffi e altre prestigiosità, ove non manco mai di riaffacciarmi alla libreria Rizzoli nel cui salone ricevetti la specializzazione in Pubblicità e Comunicazioni e l’iscrizione all’albo professionale degli esperti del settore, così per gli uffici comunali, con i plastici e piante della nuova Milano del ventunesimo secolo. Pochi passi e sono di fronte la Scala che mi ha deliziato più volte nel palco a noi riservato e, di fronte, Palazzo Marino e quella della Comit, la prima banca privata italiana. Modesto spostamento e sono in Piazza Liberty, finezza architettonica per amanti del bello, ove avevo uffici e foresteria nel grattacelino moderno sul fondo, con la mia stanza relax dalle cui pareti in cristallo la Madonna del duomo mi tendeva la mano. A seguire la Galleria De Cristoforis che giornalmente ci offriva diletto e ristoro; proseguo per Corso Venezia con i negozi delizia per mia moglie, assieme alla Rinascente. Stop a piazza San Carlo, che rammento rasa al suolo dalle bombe americane, infine San Babila, con la Sede dell’Ania ove partecipavo alle riunioni di ramo nel palazzo direzionale, anch’essa ricostruita nel dopoguerra. Giro per via Lata ove un prestigioso locale, oggi banale panineria, ci serviva incomparabili risotti con osso-buco alla milanese e vini d’élite, che solo a Milano riuscii ad apprezzare nella loro eccellenza. Pochi passi, e c’è Piazza Fontana con la sua vicenda oscura di strage e dinamite assassina, di Valpreda e altri, di vivi e di morti, dei troppi dubbi sospesi. Infine il retro Duomo, l’Arcivescovado che vide Schuster e Mussolini, il Palazzo vicereale asburgico con le mostre d’arte odierne che mi reimmette in Piazza del Duomo. E come non prendere il rettilineo di Via Dante che, con l’ausilio di un taxi, mi conduce al Castello Sforzesco e all’Arco Napoleonico, già visitati e apprezzati? Il Metrò mi agevola per la zona Fiera San Siro, oggi nella nuova sede, ove fui presente e partecipe per una lunga serie di anni. Ritrovo Largo Cherubini ove il Commissario Calabresi giacque in una pozza di sangue (ci portai poche ore dopo anche mia moglie) nonché gli uffici di polizia di via Fatebenefratelli in cui, un anno dopo, Bertoli compi l’ennesima strage con quattro morti e quaranta feriti. E ho di fronte il cortile in cui Pinelli precipitò dal quinto piano dando avvio ad una serie di fatti ancora non chiariti. Sosta di fronte la Casa di Riposo per musicisti e cantanti che Giuseppe Verdi realizzò per gli artisti meno fortunati. Sfioro anche la Milano operosa con i suoi stabilimenti oggi dismessi e trasformati sovente in degradati Centri Sociali, osservo le mura romane, il complesso che accoglie il Cenacolo di Leonardo, Brera in cui acquistammo gli eccellenti quadri di Defendi, Caressa, Scudiero e altri che oggi sono in casa. Il “tour” della rimembranza, assistito di nuovo dal taxi, tocca l’Università di figlia e figlio, la Basilica di Sant’Ambrogio, la Torre Velasca, uno dei grattacieli del dopoguerra con i miei primi rapporti di lavoro e sociali, il Piccolo Teatro di Strehler, Piazza San Sepolcro, col Covo del fascismo nel venti, il palazzo del Popolo d’Italia, il giornale del Duce, Piazzale Loreto con le sue infamità e quanto potrei proseguire! Non posso omettere il prestigioso ristorante “Conte Ugolino” che ci accoglieva discreto e ospitale con l’eccellenza dei suoi cuochi, sommelier, ambienti raffinati. Aggiungo il Politecnico delle professioni, in cui mi fu chiesto di insegnare e la lontana sede universitaria di informatica che frequentò mio figlio. Però con questi siti ho terminato il girovagare. Tornerò presto e non potrò che ripetere la visita con l’analogo impegno odierno, apparentemente superficiale, in quanto la città l’ho scolpita nell’anima. Così riecco Varese che per anni fu base gradita della mia famiglia e una delle sedi principali del mio lavoro, oggi abitazione della figlia medico. Gambe, piedi e polpacci sono affaticati malgrado Metrò e Taxi ma, pur stanco, sono appagato e soddisfatto. Domani rientrerò a Roma, volevo trattenermi di più ma stavolta la mia assenza per assistenza, controlli e cure si è protratta oltre il previsto. E allora dopo qualche reminiscenza con mia figlia mi distendo nell’auspicio di un riposo confortevole e invece, come avviene in tanti casi, non prendo sonno. E la mente spazia nell’immensa area nord che conobbi in tempi remoti. Ecco allora le sedi del mio lavoro, vita e interessi, come Varese per l’appunto, la città giardino prealpina, poi la Gallarate ove nacque la prima nipote e vede mia figlia dirigere la ginecologia ospedaliera, ecco la Busto Arsizio dei tanti opifici oggi dismessi, con la Malpensa vicina e l’Agusta che sforna elicotteri per l’Italia e il mondo. A seguire Vergiate, Venegono, Sesto Calende, Calcinate ove nascono aerei e elicotteri Macchi, Savoia, Agusta e base del volo a vela che amo. A Venegono raggiunsi quasi il brevetto di volo, cessato per la minaccia di mia moglie di fare le valige e tornarsene a Roma, o in Veneto sua patria d’origine. Poi la Legnano del Carroccio, Castelseprio con le basi romane e barbariche, Arcumeggia, il paesino dei Murales di pregio, ove ebbi un impatto con uno squilibrato sordomuto armato di coltello per motivi a tutt’oggi ignoti; a seguire Angera l’austriaca, Sesto con le sue palafitte ove Garibaldi sbarcò per una delle tante imprese guerrigliere. Seguono Luino, Gaggiolo, Brogeda, Ponte Chiasso delle frontiere elvetiche, le ville traboccanti di verde, i tanti laghi e laghetti delle prealpi, il Lago Maggiore, di Como, d’Orta, Monate e ancora, con l’Arona lombarda e la Stresa piemontese che si osservano e le isole borromee che fanno da corollario. Tutto ben visibile dalle vette varesine del Sacro Monte e dell’Osservatorio che spaziano nelle aree sottostanti. La mente serale vaga in altri siti d’impegno e diletto. Alla Novara degli ascensori, ai Comitati fidi di Genova e Torino, città che mi affascinarono per i loro acquario e museo egizio, le nostre sedi liguri e sabaude, panorami incantevoli ed i miei studi quinquennali torinesi in Scienze Aziendali. Giunsi fino alle Aosta e Cuneo di confine, alla Pavia e Voghera della pelle, pellicce e calzature, base di altra mia foresteria, navigo mentalmente nella Como setiera, nella Lecco del ferro, Sondrio del legno e, a scendere, alla Mantova e Cremona del latte, formaggi, delle eccelse mostarde di cui rifornivo la casa. Puntate di lavoro mi videro nella Vicenza veneta, ove aiutai qualcuna a ritrovare se stessa, alla dogana di Trieste e alla Venezia in cui avevo base in un palazzo patrizio. Il vagare di pensiero rientra alla Brescia del cuoio e di Piazza Fontana infausta, alla Bergamo manifatturiera, per giungere alle emiliane Ferrara, Piacenza e Modena della Maserati, nostra apprezzata cliente. Come omettere un flash per i locali particolari sul Po vogherese ove conobbi l’eccellenza di un “vero” piatto di asparagi e uova come loro sanno fare, assieme a pari merito della Cantello varesina? Eccomi nella remota Rovereto dei prefabbricati, occorrenti nei tanti interventi per calamità e terremoti, con le sue campane e il sacrario 1915–18. Sfioro Castelfranco e Conegliano ove, sempre parlando di tavola, conobbi i bolliti veneti completati da robuste salse e mostarde. Rientro nell’area lombarda, sempre considerata pari alla mia laziale e romana. Il viaggio virtuale è al termine. Giungo di mente alla Busto Arsizio ove staziona da sempre una fitta coltre di nebbia che sparisce d’improvviso in prossimità di Gallarate, lasciando la via libera fino a Varese e oltre. La devo superare ma non ci riesco. La stessa si espande su me concedendomi finalmente il sonno atteso. Suggestioni, sensazioni di una vita che ha appagato e arricchito me e i miei. Tutte uniche pur se m’illuda diverso, tutte da ripetere qualora se ne presentasse l’occasione. Ho parlato meno della componente umana in quanto quella d’oggi è inquinata dalle masse variegate di colore, di Stato, regione, comune, cultura, di tutto. Comunque i veri lombardi e romani, pur pochi, costituiscono quella comunità che creò la storia, il benessere, le opere, l’Italia insomma, checché ci sia chi tenti di contestare quest’ovvia evidenza.


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