Sunday, October 21, 2018

Ottobre 22  2018 Lunedì . n° 2714 + 21 NS  (nuova serie). Pensiamo positivo. 


Recordatio 
 Vita parallela - Di tutto un pò - Mix-uno 
Dopo scuola, balilla, chiesa, parlo ora di me, dei miei problemi, della famiglia. Sin da piccolo conosco una zia, cugina di mia madre, non sposata e assistente in famiglie signorili, che mi dimostra un grande affetto. Da lei ricevo regali, dolci, perfino le banane, le quali sono un frutto proibito che costa sei o sette volte più degli altri (oggi valgono come le mele). Un anno, in occasione dell’Epifania, e col suo contributo decisivo, mi giunge nientemeno che un cine-proiettore a manovella che costa più di cinquanta lire, assieme a varie brevi pellicole che incrementerò con quelle di guerra e le comiche di Charlot e Ridolini regalatemi dallo zio perugino, quello che tiene spettacoli nei paesini umbri. Sempre da lui avrò la sua cornetta-tromba dei bersaglieri. Un altro anno riceverò, col contributo della zia, il primo set del Meccano, non però quello inglese che, date le sanzioni in atto in Italia non c’è, bensì di una ditta di Milano dalla qualità più scadente. Il Meccano ho seguitato ad incrementarlo, sia con la stessa ditta nazionale che altre, compresa la casa madre di Liverpool, giungendo a trovarmi con un notevole complesso costruttivo non più gioco per ragazzi, bensì serio hobby per adulti. Mi arrivano pure il set traforo, il teatro con le marionette, biliardini all’avanguardia dei tempi (un po’ i flipper d’oggi), birilli, libri e altro. La zia si trasferirà in Eritrea, cioè in Africa Orientale Italiana ove avvierà un albergo-pensione ad Asmara. Lei mi promette che a studi conclusi mi porterà con sé, mentre io mi figuro la sua casa circondata da scimmioni e bestie feroci. Nel palazzo cresce il numero degli amici che apprezzano le mie cose e l’avere io una zia così munifica. Anche se loro insistono a dirmi che Befana o Babbo Natale non esistano, io continuo a mostrare di crederci sia per pigra convinzione sia per tornaconto. Facciamo spettacolini cine, marionette, costruiamo aquiloni e modelli volanti, facciamo girare in casa motorini per modellismo che sputano olio, imbrattando un bel po’, costruiamo monopattini, carrettini (oggi skate) con cuscinetti a sfere usati che ci procuriamo dai meccanici. Con i monopattini ci avventuriamo in gite discretamente lontane. In una di queste, in un prato di Cinecittà, allora campagna, trovo a fior di terra la parte frontale di un cranio umano; la pulisco, la porto in casa e la conserverò per anni, fino alla partenza per il militare. Al ritorno non c’è più, mia madre l’ha portata al Verano. Peccato, c’ero affezionato. Fondiamo piccole società di ricerca, di studio, modellistiche, sigliamo infantili accordi di parentela fra noi, specie con uno che ha una sorella e una cugina graziose le quali piacciono un po’ a tutti. Come conseguenza è che nelle nostre case siamo sempre in parecchi, specie nella mia, mettendo a dura prova la sopportazione delle madri e famiglie sovrastanti e sottostanti. Nei prati vicini, che divengono sempre più rari per i palazzi che sorgono come funghi, svolgiamo accanite partite di pallone nelle quali, inizialmente, io indosso una maglietta a righe verticali giallo-rosse della Roma. In una delle prime volte mio fratello, dopo sommarie istruzioni, mi assegna il posto di terzino ed io, vedendomi dietro la porta facile da raggiungere, penso di girarmi e infilarci un bel goal. E’ meglio non dica ciò che mi è urlato! Attività costante era poi quella del fare a sassate con i ragazzi del palazzo accanto, altrettanto numerosi e scatenati (così, tanto per fare la “guerra”). Innalziamo rudimentali fortini con gli scarti edilizi dei cantieri vicini, facciamo scoppiare bombe confezionate con acqua e carburo, posti in un barattolo di latta messo in un pozzetto, dopodiché, stesi bocconi, accendiamo l’acetilene con una lunga canna con fiammella, cui segue un boato col barattolo che schizza in alto più dell’altezza del palazzo. Esploriamo cave di tufo e pozzolana aiutandoci con candele e lumi a olio e petrolio, ove una volta ci perdiamo uscendone con difficoltà e escoriazioni, avendo dovuto infilarci in un pertugio pieno di rovi. In seguito avremo lampade migliori e filo da svolgere a terra, divenendo speleologi in erba.

Probabiliter
Il Tempio della Ninfa Egeria (forse) 
E’ un Sabato e noi balilla abbiamo fatto una marcia campestre nei prati dell’Acqua Santa (c’è chi la chiamava Acqua Egeria, dalla ninfa lì presente, alla quale si riferiva il re sacerdote Numa Pompilio per essere consigliato o consolato d’animo e di corpo). In mezzo ai prati, in un avvallamento un po’ scosceso, sono le sorgenti dell’acqua frizzante detta Santa perché secoli or sono dovrebbe aver fatto bene a qualche Papa o ecclesiastico di livello, con stomaco e reni in disordine visto ciò che ingurgitavano. Il nome - marca Egeria verrà assegnato in seguito, dopo la guerra. Finiti i servizi GIL decidiamo in pochi di tornare sul posto in quanto avevamo notate delle antichità in mezzo la vegetazione e poi stazionavano fra gli arbusti parecchie prostitute di basso livello, a disposizione sia di civili di bocca buona, sia degli avieri di una vicina base e noi, con la curiosità morbosa dei tredicenni sprovveduti, cercavamo di capire più di quel sesso in cui giocavamo a mostrare di saperne tutto, mentre non ne conoscevano niente. Abbiamo ancora qualche ora di luce e ci inoltriamo nei passaggi della vegetazione. Giungiamo così sul bordo del torrente che da sempre scorre tumultuoso nel luogo, è l’Anio romano. Questi poi, per una piccola diga regolatrice, formava in un punto una pozza - bacino detta laghetto “Ruota Rossa” in quanto la manopola della serranda di regolazione era un tempo dipinta in rosso. In questa piscina anomala in estate parecchi di noi facevano il bagno, anche nudi, pur se ogni tanto arrivava qualche guardia. Che io ricordi ci si affogò qualche ragazzo, non tanto per la pericolosità che non c’era, quanto per l’acqua gelida la quale potrebbe aver causato delle congestioni a chi non era a stomaco vuoto, oltreché per il fondo melmoso. Proseguiamo a ritroso il torrente. Non più di cento metri e ci troviamo di fronte ad una inaspettata magnificenza, un tempietto circolare malridotto ma perfettamente riconoscibile. C’è la base, alcuni gradini, il pavimento originale, spezzoni eretti di colonne e altri in terra, assieme a blocchi vari, nonché un’ara scheggiata con scolpite foglie d’acanto e bucrani, teste di buoi. Un tempio che oggi sarebbe restaurato a nuovo! Chiaro che l’avevamo solo evidenziato, scoperto no perché in quella zona, ove Erode Attico e Massenzio avevano costruito i loro complessi di resti ce n’erano parecchi; diciamo che il tempietto era stato dimenticato ma in qualche mappa di sicuro ne esisteva traccia. Non sapevamo a chi fosse dedicato però non avemmo dubbi, per noi, dato il luogo, era quello della Ninfa Egeria e tale resterà. Nel laboratorio appronteremo una tabella con “Scuola Carlo Moneta  -  reperti in scavo e recupero” piantandola sul posto. La notizia si sparse e noi ci sentivamo importanti. Venne a vederlo anche il preside e qualcuno del Fascio e li sentimmo dire, bello! si! però! già lo si sapeva! già era noto! e via. Mi sarebbe piaciuto vedere se non l’avessimo trovato quanto altro tempo sarebbe rimasto negletto e abbandonato. Poi la guerra arrivò anche per Roma, allarmi aerei, impegni, noi che crescevamo e l’interesse pian piano si affievolì così, salvo qualche altra incursione, rientrò nell’anonimato. Un paio d’anni dopo, prima della caduta del Duce, avemmo modo di tornare e quale fu la nostra delusione nel constatare che il sito, un po’ scordato da noi, non lo era stato per i terzi, e più della metà dei pezzi non c’era più.  Un “acquasantaro” (quelli che alla fonte riempivano i fiaschi che poi vendevano alle famiglie) ci dice che più volte erano giunti i mezzi  di un’impresa che stava costruendo alcune villette per dei pezzi grossi del Fascio, ne fece qualche nome, così una colonna oggi, un capitello domani, si erano portati via quasi tutto. Volevamo fare chissà ché ma non facemmo nulla, a distogliere i bollori ci pensarono lo sbarco alleato in Sicilia, i bombardamenti su Roma, il 25 Luglio con la caduta del Duce, l’armistizio, gli scontri romani dell’otto Settembre, i tanti altri altrove. Tornammo in loco a guerra finita, dopo un altro paio d’anni. A parte le sorgenti che saranno libere ancora per poco, del tempio notammo che restava solo la base al grezzo, pure il residuo della pavimentazione era stato asportato. Il malridotto blocco dell’ara si era invece salvato perché trasformato in una specie di tavolo - desinare per gli operai - svaligiatori. Infine sparì anch’esso. L’acquasantaro disse che l’ara l’aveva presa chi stava costruendo una villa per un attore sull’Appia Antica. Così fra le ville e villette di gerarchi, signori, arricchiti, attori, il tempio della Ninfa scomparve, aveva resistito venti secoli ma in tre - quattro anni di tempi moderni finì di esistere, e con lui una quota altissima di altri reperti importanti o no presenti in zona e nella vicina Appia. Dissero dov’era l’ara, la intravidi, forse sbagliai, ma fui sconsigliato ad interessarmi del problema. Aggiunsero: “meglio che questi pezzi stiano ove si trovano. Se vuoi vedere la fine che fanno quelli ritirati dalle autorità archeologiche vai al museo delle terme di Diocleziano”. Ci andai e mi trovai in un piazzale carico all’inverosimile di pezzi di marmo e tufo coperti da strati di polvere e dal vellutello dell’umidità, tutto in uno stato di apparente abbandono. Affermarono inoltre che nei magazzini di sotto ce n’erano dieci volte di più. Che farne?  ma! a Roma di pietre ne abbiamo da buttare! Alla fin fine non mi spiacque la destinazione dei pezzi del tempietto in qualche giardino o interno di dimore, casali. Per ora stavano meglio lì, nel futuro non so. Anche la base sparì, inglobata nel fabbricato futuro dell’acqua. Di recente l’ho rintracciata, sporge per un angolo dalla struttura moderna, ma nessuno sa più cosa sia. Alcuni amici chiedono se la zona fosse sotto vincolo archeologico. Lo era, e come! altrimenti non ne sarebbe rimasto un metro quadro libero, bensì coperta dai falansteri dei quartieri dormitorio adiacenti. Oggi essa fa parte del Parco dell’Appia e la deroga al divieto di costruirci venne rilasciata solo per lo stabilimento dell’acqua Egeria. Che poi si siano portate via un mare di cose, sia del tempio sia nei pressi, è diverso, eravamo in guerra e altri pensieri assillavano noi tutti, così le Belle Arti, non però gli svaligiatori. E nel dopoguerra passammo periodi di dura emergenza per necessità, per assenza di regole e autorità.  Se potessi parlare col Duce gli direi che da balilla pensai di aver fatto chissà quale scoperta o riscoperta archeologica. Ma dovetti ricredermi. Sognai cose eccelse per la grandezza di Roma ma i tempi successivi furono quelli di un presunto benessere materialistico, senza l’orgoglio di un passato e appartenenza a una avanzata socialità. Le disillusioni a lui successive sono state molteplici e mi confermano i suoi tentativi di rendere più maturo il popolo (inutile).  Occorreva più tempo e un polso più deciso 

Consideratio 
Parlerò per un pò di come seguii lo sviluppo tsunamico del debito pubblico. Non contesto le finalità sociali che i  governanti affibbiavano alle incaute operazioni finanziarie, poco potevo farci. Il centro e la sinistra allora al  governo tentarono la miglioria d'una classe misera evitando con cura che i ceti abbienti, che pur davano lavoro e occupazione, guadagnassero una lira in più di un quasi nulla. Inizio con un evento  modesto, rivelatosi poi in tutta l'ampiezza. E' un'estate fine 50 - 60, sono in villeggiatura per poco in un paesino laziale (i miei ci saranno 3 mesi) quando una sera bisboccia per tutti. osterie aperte, vino a volontà, anche gratis, umori frizzantini e allegria per festeggiare la concessione della pensione ai coltivatori (guai dire contadini). Cosa giusta, attesa e promessa. D'inizio 5000 lire mensili poi 10.000, ed ecco sparire la povertà dalle campagne. Già, l'iscrizione alla Coldiretti o la sua frettolosa regolarizzazione fecero si che l'assegno spettasse oltre al capo-famiglia più o meno sessantenne, anche alla moglie, figli, nipoti, parenti, nonni, single e via, cioè tutto o quasi  il nucleo familiare. Considerando che in campagna la casetta, orto, galline i contadini l'avessero tutti, ne venne che l'entrata servisse o per i consumi plus sempre agognati o da mettere sotto il classico mattone (le raffinatezze finanziarie verranno poi). Si noti che allora l'agricoltura superava l'80% dell'attività nazionale, con decine di milioni di addetti. Quindi tutti contenti, me compreso, restando però il quesito della copertura in quanto nessuno aveva mai pagata una Lira previdenziale. Quindi fu una elargizione consolidata, crescente, che avviò, con altre che vedremo, il debito pubblico, giustizia sociale o no.  
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